14 settembre 2009

Clinica Mobile

Questo blog è per il 90% un raccoglitore delle mie cazzate, volto a far sorridere chiunque mi conosca e tra un impegno e l’altro pensi “vediamo se la fava del Nuzzi ha scritto qualcosa di divertente”, e vorrei rassicurare tutti che tale percentuale resterà più o meno immutata.

Pertanto se non sei un cicciottino che si fa scuotere come un salvadanaio ogni domenica o non hai mai dato un bacio alla tua moto perché ti ha tenuto dentro in quella piega che pareva impossibile probabilmente ti conviene stopparti qui. Se continui mettiti a sedere (se sei un cicciottino sarai già a sedere per motivi di risparmio energetico) e ascolta una storia romantica come di questi tempi ne sono rimaste poche.
Tengo a precisare che la storia è romantica, ma non melodrammatica, che io sono romantico ma non melodrammatico. Ma se pensi che sia melodrammatico alla fine del pezzo puoi sempre cliccare qui e comprare una cravatta. Via alla storia.

Il dottor Claudio Costa è il famoso medico dei piloti che seguendo la MotoGP avrete sentito parlare in modo poetico delle condizioni del pilota X che che dopo una caduta e un po’ di infiltrazioni sale in moto mezzo ingessato per continuare a correre.
E’ un tipo strano che ha cominciato 40 anni fa dal niente, unendo la sua passione per la medicina a quella del mondo delle corse, seguendo i piloti con valigetta e cerotti.
Nel suo sito ClinicaMobile ci sono un sacco di storie e aneddoti, ma quello che mi ha colpito di più è il racconto di 2 eventi di un tragico pomeriggio a Monza di 30 anni fa in cui persero la vita Jarno Saarinen e Renzo Pasolini:
“Solo una volta tentennai e meditai di abbandonare il mondo delle moto, quel mondo meraviglioso regalatomi dalla fantasia di mio padre. Accadde una maledetta domenica: il 20 maggio 1973 a Monza. Poco dopo le tre del pomeriggio morirono Jarno Saarinen e Renzo Pasolini, coinvolti in un terribile incidente alla prima curva con altri 15 piloti. (…)Tanti ricordi si affollarono nella mia mente torturata dal dolore, e quelli che si presentarono con più insistenza, erano legati a eventi accaduti circa due mesi prima, in un tempo dove nulla faceva presagire un così terribile futuro.
Il 25 marzo 1973, durante una gara internazionale organizzata [a Imola], Jarno Saarinen cadde al Tamburello (…). L’apprensione fu tanta. Jarno arrivò al piccolo ospedale dell’autodromo lucido, sereno e ancora sorpreso di essere caduto. (…) Il pilota finlandese lamentava un fastidio al ginocchio.
La sera, mentre cenavamo al ristorante dell’hotel Molino Rosso di Imola, fui avvicinato da Giovanni Fantazzini che, preoccupato, mi invitava nella stanza d’albergo occupata da Jarno Saarinen. Fui ricevuto subito dal pilota, steso sul letto con accanto la moglie pensosa Soili. Notai subito che sul ginocchio c’era tanto ghiaccio. Con un sorriso mi apostrofò in tedesco, e Giovanni tradusse: “dottorcosta” (tutto attaccato, come poi avrebbe fatto, nel seguito della mia storia, anche Mick Doohan), “tu mi hai detto che il ginocchio si sarebbe gonfiato, e adesso che è accaduto me lo devi guarire, perché voglio correre il 1 aprile a Misano, l’8 aprile a Modena, il 15 aprile la 200 Miglia qui a Imola e il 22 aprila la ‘prima’ del Mondiale di Francia a Le Castellet.” Il ginocchio era spaventosamente gonfio, pieno di liquido che pensai subito fosse sangue. (…) Con la consulenza del mio maestro, il professor Alessandro Dal Monte, levai dal ginocchio tantissimo sangue e insieme bloccammo l’articolazione in una leggera ginocchiera amidata.
Sapevo che i piloti erano strani e “folli”. Fin da allora intuivo che ci fosse in loro qualcosa di magico che li allontanava dalla prigione delle regole, ma non ne avevo ancora la consapevolezza. Adesso so che i momenti in cui l’essere umano è più vivo, sono quelli in cui esso si ritrova più folle, ancorato alla realtà come in un sogno, dove il dolore non è più un inutile affanno ma una specie di dono con tutta l’infinita preziosità del significato che l’accompagna. Adesso so che la pazzia più grave è quella di colore che si definiscono sani e che si leccano, immobili nelle loro tane, le ferite; di colore che credono che la loro protezione si trovi solo nelle acque stagnanti. Essi non si accorgono che l’acqua stagnante è uno spettacolo povero dinanzi alle acque di un ruscello o di una tumultuosa cascata.
(…) Domenica 8 aprile ci presentammo alla partenza con grande emozione, forse più da parte mia che sua. Dopo la prima gara anch’io ero soddisfatto, perché il ginocchio aveva funzionato bene, ma la paura guastò quel momento felice: “Se poi nella seconda gara, abbandonata ogni prudenza, Jarno fosse caduto compromettendo un lavoro così ben riuscito?”
I dubbi mi assalirono. I fantasmi che abitavano nella mia mente mi urlavano insistentemente di ritirarmi dall’impegno preso e di consigliare al pilota di non correre la seconda gara. Balbettai la mia pavida proposta a Jarno, cercando di spiegare che era per il suo bene. A quel punto fui folgorato da una riposta che non avrei mai più dimenticato. (…) “Se vuoi diventare per sempre il mio dottore, mi devi curare bene, ma non devi esitare a lasciarmi libero di guidare la mia moto, quando sono tornato ad esserne capace. Dimmi solo la verità sul mio stato, e dopo sarà solo la mia storia.”

Vinse quella gara e poi la 200 Miglia di Imola e tutte le gare della 250 e della 500 cc del Campionato del Mondo, fino a quando incontrò il destino che la rapì al mondo, 42 giorni dopo la corsa di Modena.
Nella notte di quella crudele, maledetta domenica di Monza, piangendo disperato mi accusavo selvaggiamente di non averlo tenuto ingessato per due mesi, invidiando chi si nascondeva nel pantano dell’indecisione. Nella notte sognai mio padre. (…) La figura sorridente e luminosa di mio padre mi rasserenò. Vidi che il viso deluso di Jarno mentre ascoltava le mie proposte di prudenza a Modena non era peggiore di quello, terribilmente sfigurato, che vidi senza vita a Monza. Perché perdere una vita spesa bene è una fatalità naturale, perdere una vita non vissuta è un peccato mortale. Ho continuato il mio lavoro nel mondo del motociclismo, e da allora mi sono sempre alleato con chi tentava di vivere la vita, piuttosto che sfuggirla. E il viso di Jarno, che porto sempre dentro il mio cuore, sorride ogni volta che aiuto un pilota a rimontare in sella alla moto. Con Jarno ho imparato che si può scegliere di essere uomini, e che la gioia e la felicità si bevono nello stesso calice del dolore.”


Fonti:
Commemorazione Monza
Ricordando Jarno

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